Ni hao ma?

 

"… poi questa signora, anche lei con il naso grosso, ma che riesco a capire perché parla come me, che chiede il mio nome e lo pronuncia come si deve…"

 

 

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Un bambino di undici o dodici anni ritrova, in un mondo che non conosce, genitori che non conosce e che lavorano entrambi a ritmi molto intensi

 

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Xiao Bi era arrivato a gennaio in un paesino della Val Venosta, direttamente da un paesino nello Zhejiang.

 

 

 

 

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Erfahrungen mit Schülern aus China

Von Lidia Fallai

Inizia sempre con una telefonata: "Pronto? . Professoressa?. E' la scuola … abbiamo un alunno cinese. E' qui da due settimane e non riusciamo a comunicare in nessun modo… con le altre nazionalità ce la caviamo ma con il cinese …Venga appena può …"

Se e appena posso, vado e finora i primi incontri sembravano repliche di una stessa scena: mi presentano un ragazzino che sembra più giovane della sua età anagrafica, zitto e che non guarda negli occhi, con il capo abbassato e l'aria assente e spenta. Non mi aspetta, non ha nessuna idea di chi io sia ed ha già rinunciato a chiederselo.

Esordisco con la più banale delle formule: "Ni hao, wo mingzi jiao Lida, wo shi laoshe, ni jiao shenma mingzi?" Gli occhi si alzano, e quel viso, così serio, si illumina del più bello ed eloquente dei sorrisi. E' il sorriso di chi intravede per un attimo il mondo ritornare a testa in su, recuperare coordinate intelligibili, ritrovare la parola e dunque un senso. Attraverso l'intensità e la spontaneità di quel sorriso meglio si comprende l'espressione che lo precedeva, ed alla luce di esso si è spinti a riflettere. Immaginati bambino e ritrovarti all'improvviso, senza averlo scelto né voluto, in un mondo dove gran parte di ciò che hai imparato fino a quel momento diventa inutile : l'espressione, le convenzioni sociali, i meccanismi di decodificazione, tutte quelle chiavi indispensabili ad entrare nella vita fino a poco prima non funzionano più, non servono più a nulla se non a farti individuare come diverso.

"… poi questa signora, anche lei con il naso grosso, ma che riesco a capire perché parla come me, che chiede il mio nome e lo pronuncia come si deve…". Poche frasi come un salvagente in un mare di solitudine e confusione, uno spiraglio nel buio. Quei tristi occhi a mandorla si illuminano ed i lineamenti del volto si distendono. In quel primo sorriso, che ritrovo poi ad ogni incontro, c'è il senso di tutto quello che faccio. E' la cartina di tornasole che constata l'assolvimento di uno dei miei compiti, quello di diventare un punto di riferimento affettivo per ridurre il disagio.
E lo leggo sempre come un buon auspicio, come un incoraggiamento.

Di fattori positivi ed incoraggianti ne ho trovati molti, nella mia breve esperienza di mediatrice: i "miei" ragazzi sono sempre stati accolti con simpatia dai compagni, e con disponibilità, direi anche tenerezza a volte, dal personale di scuole che già conoscevano il problema dell'inserimento di stranieri nella propria realtà, e con loro, cinesi, lo vedevano solo acutizzato. Ho riscontrato rispetto, interesse ed impegno nelle scuole in cui sono intervenuta ed ovviamente il mio lavoro ne è risultato grandemente facilitato.

E naturalmente ci sono anche i problemi e i fallimenti. Uno molto grande quello legato alle famiglie dei ragazzi. Conoscendoli si scopre un altro scenario che tende a riproporsi con poche variazioni: i genitori sono in Europa già da tempo anche se qui continuano a vivere in modo del tutto marginale. Anni prima, emigrando, avevano affidato il figlio a qualche parente che ora non c'è più, o non può più occuparsi di lui e così si decide il ricongiungimento. Un bambino di undici o dodici anni ritrova , in un mondo che non conosce, genitori che non conosce e che lavorano entrambi a ritmi molto intensi.

Rispetto a queste famiglie ed ai loro rapporti con la scuola dovrei avere un ruolo-ponte importante, ma nonostante i miei sforzi non sono mai riuscita ad andare al di là del contatto telefonico e non credo di aver vinto quella delicata partita di equilibri per vincere la diffidenza, superare i formalismi e guadagnarmi la loro fiducia.

Xiao Bi era arrivato a gennaio in un paesino della Val Venosta, direttamente da un paesino nello Zhejiang. Abitava un po' fuori, lontano dai suoi compagni di classe che non frequentava al di fuori della scuola. In Cina si alzava alle quattro del mattino per andare in una scuola di cui non mi parlava mai, ma il fatto che a dodici anni conoscesse in modo impreciso solo alcuni ideogrammi, mi lasciava immaginare il luogo di un'esperienza non felice. Imparare l'italiano era per lui particolarmente difficile. Con la fine dell'anno scolastico si cominciavano a vedere i primi risultati: Xiao Bi capiva sempre meglio ed iniziava ad esprimersi. Condividevo con i suoi insegnanti il timore che l'isolamento durante i mesi estivi li avrebbe vanificati. Tramite la scuola ed i servizi sociali avevamo trovato una famiglia locale, con ragazzi coetanei, contenta di accoglierlo per qualche pomeriggio alla settimana. La madre, un'insegnante, gli avrebbe dato una mano con la lingua e l'iter burocratico perché tutto ciò si concretizzasse non era troppo complicato. Non sono riuscita a convincere il padre. Ho tentato, a lungo e con impegno, ma non ce l'ho fatta. Molti complimenti e ossequi, anche un invito a mangiare al ristorante cinese del paese, ma il figlio è mio, voi pensate a promuoverlo, che è già più grande dei suoi compagni di classe.

Un altro ordine di problemi è legato agli insegnanti. Non avendo i "miei" ragazzi problemi di inserimento nel gruppo classe ed essendo il cinese una lingua isolante con specificità profondamente diverse dalle lingue indoeuropee, il mio ruolo principale è sempre stato quello di facilitare il loro processo di apprendimento soprattutto della lingua italiana. In questo compito sono sempre stata affiancata da colleghi delle materie curricolari che dedicavano ore a disposizione a questo tipo di insegnamento individualizzato con grande disponibilità. Ed ascoltando i loro commenti di fronte a questa nuova mansione mi sono resa conto di alcune difficoltà soprattutto nelle scuole medie e superiori dove si crea proprio un problema di mestiere, meno sentito nelle scuole di ordine inferiore. Nella scuola materna e alle elementari gli insegnanti sono di per sé "alfabetizzatori" di tutti i loro allievi e quindi l'insegnamento dell'italiano ad un bambino che non lo parla come lingua materna rientra più naturalmente nella sfera delle loro competenze. Non è più così a partire dalla scuola media dove inoltre si devono coinvolgere allievi più grandi, con esigenze ed interessi più sofisticati ed agli insegnanti mancano spesso gli strumenti per poterlo fare nel modo più efficace.

E poi c'è il tempo, che è sempre troppo poco e va purtroppo ritagliato in funzione degli altri impegni professionali. Mi accorgo di partire sempre con grandi progetti per un'animazione interculturale in grado di coinvolgere tutti gli alunni della classe, che metta in valore la lingua e la cultura cinese senza folklorizzazioni, che poi vengono regolarmente ridimensionati se non addirittura eliminati, in favore della priorità inevitabilmente data all'alfabetizzazione. Con tutte le difficoltà e i limiti, quello di una figura- ponte tra due culture rimane un ruolo che mi entusiasma.

 

Lidia Fallai hat "lingue e letterature orientali" in Venedig studiert, ihre Kenntnisse dann in der Volksrepublik China erweitert und ein Doktoratsstudium in Frankreich absolviert. Seit 1995 lebt sie in Meran und unterrichtet Englisch an der Oberschule. Bei Bedarf ist sie seit zwei Jahren zusätzlich als Sprach- und Kulturmittlerin tätig.